sabato 23 ottobre 2021

[Recensione] Il sogno di mia madre - Alice Munro

 


IL SOGNO DI MIA MADRE || Alice Munro || Einaudi || 2005 || 366 pagine

Otto storie di donne. Otto racconti magistrali che, come ha scritto Antonia Byatt «contengono elementi del probabile e insieme fratture e disastri. L'interesse di Munro è da sempre rivolto sia al tessuto della "normalità" sia al colpo di forbici che lo taglia di netto... Sono storie di morti violente, di nascite altrettanto violente, e di un solo, terrorizzante, aborto».

RECENSIONE

Qua ritroviamo otto racconti di donne. In questa raccolta la Munro conferma le sue qualità narrandoci una manciata di esistenze dove avvenimenti inattesi o particolari dimenticati modificano il corso delle cose. Una cameriera dai capelli rossi, nuova arrivata in una vecchia dimora, viene per caso coinvolta nello scherzo di una ragazzina. Una studentessa universitaria si reca per la prima volta in visita a un'anziana zia e, riconoscendo un mobile di famiglia, scopre un segreto di cui non era a conoscenza. Una paziente giovane e in fin di vita trova un'inaspettata speranza di proiettarsi nel futuro. Una donna ricorda un amore brevissimo e che tuttavia ha modificato per sempre il suo vivere.
Antonia S. Byatt pone la Munro a fianco di Cechov, di Maupassant e del Flaubert dei ‘tre racconti’. Ma qui il realismo non è mai assuefazione documentaristica o refertazione oggettiva, ma semmai volontaria e strategica incomprensione del fenomeno: la Munro assomiglia a chi, cercando di focalizzare il meglio possibile la propria vista su di un certo oggetto, avvicina ad esso così tanto la lente da non ottenere più chiarezza e nitore, ma caos visivo e frammentazione pulviscolare: il paradosso del ‘più si è vicini, più si è ciechi’. Ed è facile immaginare il godimento perfido di chi costruisce questa ‘trappola’ narrativa che gioca ad illudere e deludere, ad libitum, nello spazio di una riga, di una pagina, di un racconto. La precisa collocazione temporale, la cristallina definizione dello spazio, l’eclisse dell’autore, l’utilizzo di uno stile freddamente denotativo e poi, alla fine, la sensazione di essere stati depistati, il trionfo dell’inesplicato e dell’ineffabile. Viene in mente Manganelli quando affermava che la letteratura era tout court fantastica e che quella cosiddetta ‘realista’ era solo equivoco balzano, invenzione bislacca di scoliasti malsanamente pedagogici.


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