giovedì 22 aprile 2021

[Recensione] La Certosa di Parma - Stendhal

 


LA CERTOSA DI PARMA || Stendhal || 484 pagine

Un giovane sensibile e bello, Fabrizio del Dongo, compie il tragitto stendhaliano della felicità, che si adempie sia oggettivamente attraverso l'impegno nella storia sia soggettivamente attraverso il compimento pieno delle passioni della vita privata. Pubblico e privato, Waterloo e Napoleone, s’intrecciano alla passione per la Sanseverina, e nel romanzo premono con la stessa cogenza.
Figlio del tenente Robert, arruolato nella Grande Armée napoleonica che aveva varcato le Alpi il 15 maggio 1796, destando l’Italia dai secoli bui in cui era caduta dalla Controriforma, Fabrizio è figlio illegittimo del militare francese e della marchesa del Dongo.

Prima opera di Stendhal che leggo e, scopro, essere l'ultima che lui scrisse. Si percepisce la sua sensibilità romantica e la precisa analisi delle passioni dei suoi personaggi, gli intrighi politici e i comportamenti sociali delle classi che ci descrive. Stendhal era uno scrittore francese che amava l'Italia, e ciò si desume dalla lettura della sua opera. Si narra che La Certosa di Parma fu dettata e scritta in soli 52 giorni (tra il 4 novembre ed il 26 dicembre 1838) dall'autore per fuggire dall'opprimente noia e che si ispirò, nel comporla, a un manoscritto sulla storia dei Farnese, nel periodo del Rinascimento italiano (periodo che lui amava immensamente).

Trama
Protagonista è il giovane nobiluomo milanese Fabrizio del Dongo. Suo padre è un soldato napoleonico, sua madre una nobildonna milanese. Fabrizio cresce vivace e sano nel castello di Grianta, viene educato in un collegio di gesuiti a Milano, e il suo interesse si concentra sulle gesta eroiche dei suoi antenati. Circondato dalle attenzioni della madre e della zia, attira su di sé la gelosia del fratello Ascanio.
Ammiratore di Napoleone, decide di combattere nel suo esercito in Belgio all’insaputa del padre, conservatore e filo-austriaco. Al suo arrivo i soldati francesi lo scambiano per una spia e lo arrestano. Riuscito a fuggire, cerca un altro battaglione napoleonico cui unirsi, ma le delusioni si sommano una dopo l’altra. Alla fine riuscirà a unirsi all’esercito e si troverà spettatore confuso, impaurito e deluso della famosa battaglia di Waterloo. Sconfitto Napoleone, Fabrizio si trova a girovagare senza meta. A Parigi scopre che deve far ritorno in Italia ma anche che Ascanio lo ha denunciato accusandolo di essere una spia napoleonica. Ricercato dalla polizia, dopo mille peripezie Fabrizio riesce a tornare al castello di Grianta, ma è costretto a fuggire di nuovo, fino a quando la zia, la duchessa di Sanseverina, segretamente innamorata di lui, non lo prende sotto la sua ala protettiva facendogli ottenere l’immunità. A Fabrizio viene consigliato di farsi monsignore, e dopo aver ricevuto la nomina raggiunge la zia alla corte del principato di Parma. Ma anche qui Fabrizio è vittima di raggiri, finisce in prigione e sarà condannato a morte. Proprio in prigione trova finalmente l’amore in Clelia Conti, figlia del governatore del carcere. Riuscito a fuggire grazie all’aiuto della zia, Fabrizio avrà un figlio da Clelia.

Recensione
In poche parole è la storia della vita avventurosa di un giovane aristocratico milanese cadetto, dei suoi ardori giovanili, e del suo rapporto, a tratti ambiguo, con l' affascinante e bellissima zia, la duchessa Sanseverina. Il tema di fondo è politico e si sviluppa nei primi decenni del XIX secolo, dunque quasi di attualità, dopo la sbornia della rivoluzione francese e l'epopea napoleonica, cui Fabrizio partecipa da adolescente avventurandosi in modo picaresco (e donchisciottesco) fino a Waterloo, per assistere alla fine di un'era. Spontaneo, incosciente, coraggioso, animato da eroici furori e in contrasto con un padre e un fratello maggiore che sono alfieri della repressione restauratrice, il marchese del Dongo incarna la figura del nobile decaduto, che da un lato si fa prendere dalla passione per il liberalismo e dall'altro però vive e agisce secondo i privilegi di una casta che si avvia a perdere il suo ruolo sociale nel confronto con la realtà. Privo di qualunque qualità che non sia l'avventata sincerità della giovinezza, Fabrizio è vittima delle sue passioni, non ha una propensione e neppure un'educazione approfondita e nel corso delle sue avventure il narratore onnisciente, che guarda alla sua sprovvedutezza con occhio bonario e divertito insieme, lo dipinge sempre sul punto di perdersi, se non fosse per i continui interventi e interesse della zia. La duchessa, vedova di un generale napoleonico, decide di spostarsi da Milano nella piccola corte di Parma, più provinciale e governata da un occhiuto e gretto despota con grandi ambizioni politiche, dove gode dell'amore del ministro del ducato farnesiano e diviene epicentro di intrighi e maneggi tra le fazioni del ministro stesso, conservatore, e avversa, i liberali guidati dalla marchesa Raversi. Questa parte del romanzo non è del tutto storica perché dopo i regni napoleonici il ducato di Parma era governato da un ramo della famiglia Borbone, essendo quella originaria dei Farnese da tempo estinta. Probabilmente l'opportunità politica consigliava a Stendhal un'ambientazione non del tutto realistica, visto che siamo negli anni tra 1831-48, destinati a cambiare la fisionomia geopolitica dell'Europa e dell'Italia. Attorno a questi due personaggi, Fabrizio e la duchessa, ruotano una serie di comparse e caratteri minori, come il conte, amante ufficiale della Sanseverina, insieme geloso e affezionato al primo, che intuisce come il legame tra zia e nipote potrebbe anche trasformarsi in qualcosa di più intenso e vive sospeso sotto la minaccia continua di perdere la donna che ama e il posto di ministro che gliela garantisce, come il principe Ernesto V, fautore di uno stato poliziesco ma ambizioso al punto di promuoversi negli ambienti liberali come riferimento per i circoli antiasburgici per i nascenti progetti di unificazione italiana; o ancora la viscida figura dell'adulatore, il fiscale Rassi, animato dalla sola ambizione di raggiungere, lui funzionario borghese, la posizione di nobile e pronto a essere messo in ridicolo in ogni modo dai suoi superiori e a prestarsi a qualunque inganno per i suoi fini; infine l'irrinunciabile eroina, Clelia, figlia di un ex generale napoleonico, divenuto poi il carceriere di Fabrizio, icona di bellezza e dei tormenti spirituali e sentimentali di ogni figura femminile romantica, pronta a ogni sacrificio per una visione dell'amore che sa di idealismo adolescenziale più che di vera passione e di coraggio. Attraverso le complicate vite dei due personaggi principali l'autore tratteggia il ritratto di una società e di un ceto, la nobiltà decadente, completamente e inconsapevolmente travolta dai tempi e dalle contraddizioni, che sembra non rendersi conto che il turbine rivoluzionario ha spazzato via le condizioni di vita dell'ancien regime.
Le tre figure centrali rappresentano tre atteggiamenti possibili nei riguardi del potere e tre diversi modi di distanziarsi da esso. Mosca lo domina e lo manovra, pur considerandolo, in privato, una farsa; la Sanseverina lo tollera ma è sempre pronta a contrastano con tutta la forza dei suoi appetiti; Fabrizio si piega davanti ad esso con l’inchino del cortigiano e del chierico ma rimane fondamentalmente indifferente alle sue istanze. Stendhal partecipa di tutt’e tre questi atteggiamenti ma di nessuno dei tre esclusivamente.

Numerosi critici hanno detto che nella figura di Mosca Stendhal impersonava una sua visione machiavellica della politica; Arnold Hauser, uno dei migliori critici di tendenza sociologica della nostra epoca, afferma che i romanzi di Stendhal sono « corsi di lezioni di amoralismo politico » e cita sottoscrivendola l’osservazione di Balzac, secondo cui La Certosa è il romanzo che avrebbe scritto il Machiavelli se fosse vissuto nell’Italia del XIX secolo e ne fosse stato messo al bando. [...]
La Sanseverina è una romantica che incarna nei rapporti personali l’ideale napoleonico o, per lo meno, quel principio come viene inteso e sublimato da Stendhal. La grande passione della sua vita è il suo sentimento per Fabrizio, che è più di un amore incestuoso, pur essendo certamente anche questo, in quanto implica il desiderio di trovare un sostegno spirituale in un’altra persona e in tal modo ricostruirsi un’esistenza. In virtù della forza di un altro essere essa vorrebbe tornare alla condizione della sua giovinezza, non per dominare Fabrizio ma per entrare in comunità spirituale con lui.
Fabrizio è un giovane in cui si cela, sopito, un germe di aspirazione morale che un’epoca diversa potrebbe far crescere e fruttificare; egli si fa prete, trasformando la sua vita in una parodia della fede, e non a caso, poiché ha la vocazione religiosa, sia pure in una forma distorta. Sebbene non sia un sognatore, Fabrizio è dedito ai sogni - ha l’abitudine di sprofondarsi dentro se stesso fino a raggiungere il bozzolo della fanciullezza e dell’innocenza. Forse la scena in cui più la sua figura si impone, (certo una delle più belle del romanzo) è quella in cui egli torna all’albero di noce sotto il quale giocava da bambino ed ora compie un rito per riacquistare le forze vitali, esprimendo così il suo bisogno non solo di affermare la propria virilità della quale, come del resto lo stesso Stendhal, egli non è mai certissimo, ma anche il profondo senso religioso che prova nei confronti della sua fanciullezza e di quel poco che gliene resta.
Ancor più brillante è l’impostazione del personaggio di Ferrante Palla, figura che merita tutte le lodi prodigate da Balzac. Fare dell’unico liberale efficiente di Parma un poeta un po’ folle ed un brigante da strada maestra, un Robin Hood completamente tagliato fuori dal popolo e tuttavia difensore fermissimo dei suoi diritti - questo è un tratto di finissimo umorismo politico. Quando tutti i liberali tradizionali falliscono e si vendono, l’artista pazzo resta all’opposizione. Sfrenato, impetuoso, prodigo, egli fa qualsiasi pazzia per l’amore (amore e liberalismo sono la stessa cosa ai suoi occhi), scrive grandi sonetti e nel mondo di Parma è solo ad essere veramente felice (forse perché è un po’ pazzo, insinua furbescamente Stendhal).