IL PIÙ GRANDE UOMO SCIMMIA DEL PLEISTOCENE || Roy Lewis || Adelphi || 2015 || 184 pag.
«Il libro che avete fra le mani è uno dei più divertenti degli ultimi cinquecentomila anni» ha scritto Terry Pratchett. È vero, tanto tempo è passato, da quando vissero Ernest, il narratore di questo libro, con la sua ingegnosa famiglia, dal padre Edward, che fu senza dubbio «il più grande uomo scimmia del Pleistocene», a quell’amabile reazionario di zio Vania, che tornava sempre a vivere sugli alberi, a quel viaggiatore incallito dello zio Ian, per non parlare delle ragazze. Un curioso gruppetto, che si trovò, sotto la guida del grande Edward, nella delicata situazione di chi dà all’evoluzione una spinta che non si riequilibrerà mai: la spinta da cui siamo nati tutti noi. Ragionando con impeccabile acume scientifico, nonché un delizioso humour freddo, Edward e i suoi scoprirono «alcune delle cose più potenti e spaventose su cui la razza umana abbia mai messo le mani: il fuoco, la lancia, il matrimonio e così via», sempre sulla base di una elementare esigenza: quella di «cucinare senza essere cucinati e mangiare senza essere mangiati». E naturalmente non mancarono le dispute e i crucci, perché ogni volta si poteva discutere se quelle nuove invenzioni erano davvero buone o cattive, se non rischiavano di sfuggire al controllo e soprattutto se non andavano un po’ troppo contro la natura. Mah...
Pubblicato per la prima volta nel 1960, e poi ripreso più volte sotto vari titoli, questo libro si è fatto strada silenziosamente fra i classici della fantascienza a ritroso. Ma in realtà è un libro inclassificabile: una riflessione romanzesca, acutissima e leggera, su tutta la storia dell’umanità, contrassegnata in ogni dettaglio da quella limpidezza e da quell’ironia che appartengono alla migliore tradizione letteraria e scientifica inglese. Quando Théodore Monod lesse questo libro, segnalò all’autore uno o due errori tecnici, subito aggiungendo «che non importavano un accidente, perché la lettura del libro l’aveva fatto ridere tanto che era caduto da un cammello nel bel mezzo del Sahara».
RECENSIONE
Non è facile parlare di questo libro, ma potrei dire che è il libro che ironizza sull'uomo delle caverne, di quando ancora si viveva nella grotte e si cacciavano, con coraggio, prede venti volte più grandi di noi. La scoperta del fuoco diventa un evento eccezionale: si scopre che la carne cotta è molto più digeribile e gustosa di quella consumata cruda. Anche a quei tempi vi erano i litigi tra coniugi, si dovevano educare i figli, si doveva pensare a cosa mangiare e soprattutto, si doveva stare attenti a non essere mangiati, a non diventare prede.
Non è un libro divertente, ma credo il contrario: fa riflettere sulla nostra condizione umana attuale, ci fa comprendere che gli stereotipi che c'erano prima dell'invenzione della scrittura e delle città, esistono tutt'oggi. Ci fa capire che l'uomo, anche quando ancora era più una scimmia che un umano, sbagliava ed era anche cattivo, egoista, e che secoli di storia non ci hanno cambiati, anzi, spesso ci hanno peggiorati.
Ma un messaggio, forte, esce fuori da questa lettura: l'essere umano tenta di migliorarsi, pur sapendo di essere una carogna, ma anche quando ci sforziamo di farlo combiniamo spesso solo guai.
E poi zio Vania, come dimenticare zio Vania!