lunedì 22 marzo 2021

[Recensione] L'avvoltoio - Franz Kafka

 


L'AVVOLTOIO || Franz Kafka || Ricci || giugno 1978 || 133 pagine

L’Avvoltoio è un breve racconto pubblicato da Kafka nel 1920, esso descrive una vicenda surreale e con un finale tragico che venne suggerita a Kafka da un sogno fatto nel 1911. Il volume, oltre a questo racconto, ne contiene altri dieci, che consentono di entrare nell'inquietante mondo kafkiano da una prospettiva non meno affascinante di quella dei grandi romanzi. Preziosa l'introduzione di J. L. Borges.

RECENSIONE

Questo libro è una raccolta di racconti di Franz Kafka, scrittore boemo. Ne contiene esattamente 11. Ben noto è che tutta l'opera di Kafka è caratterizzata da atmosfere tetre, angoscianti, dove l'individuo lotta contro il destino avverso e da dove ne esce sempre sconfitto. Non a caso egli è considerato un acuto interprete delle paure della società europea del primo Novecento.

Il racconto più breve di questa raccolta è il primo, L'avvoltoio (1920), dove il protagonista racconta di essere tormentato da un avvoltoio che gli becca con violenza i piedi. Un passante, che giunge quando ormai i piedi sono lacerati, chiede al protagonista perché mai non reagisse per scacciare il feroce volatile: nonostante il tormento sembra essergli indifferente e costretto ad accettarlo. Allora il passante va a procurarsi un fucile per eliminare il volatile: e l’avvoltoio lo capisce e subito si slancia in un affondo attraverso la bocca dell’inerme, spingendosi dentro le sue viscere: “sentii, liberato, che nel mio sangue straripante, di cui erano piene tutte le cavità, l’avvoltoio affogava irrimediabilmente”. Questo brevissimo racconto è certamente ispirato alla leggenda di Prometeo che viene tormentato da un aquila. Il protagonista per liberarsi dalla tortura deve pagare con la vita.

Nel secondo racconto, Il digiunatore (1922), narra una sorta di esperimento umano: una persona decide di digiunare e tutti i passanti possono osservarlo giorno dopo giorno. Qua Kafka ci da una visione del darsi dell'arte, della scrittura nel suo caso. Questo racconto lo scrisse negli ultimi anni di vita, roso dalla tubercolosi e costretto a spostarsi da un sanatorio all'altro fino all'insorgere di una laringite tubercolare che lo inchioderà a un progressivo silenzio e, appunto, digiuno.

In Primo dolore (1922) troviamo un giovane trapezista di abilità straordinaria che non vorrebbe mai scendere dalla corda. il titolo sembra alludere al primo momento di un cammino di crescita: il dolore di cui si parla è una raggiunta consapevolezza, il primo grado di una cognizione che si realizza pian piano, come il passaggio dall’infanzia all’età adulta. Per il trapezista ogni residuo, ogni frammento di comunicazione fra il mondo normale degli uomini e lo spazio trascendente a cui tendono ne impedisce l’assoluta giustificazione e realizzazione.

Un incrocio (1917) è una bestia, un incrocio tra un gatto e un agnello. In una delle sue ultime lettere a Felice Bauer, Kafka aveva scritto di se stesso che non poteva avere “né famiglia né amici; parla altresì del coltello del macellaio ebreo come mezzo per la sua redenzione. Possiamo quindi concludere che, narrando della bestia, Kafka parla di se stesso, affermando di non avere familiari e di desiderare la morte. Si tematizza la problematica dell’identità e del ruolo di un essere strano all’interno dei sistema familiare. Il “gatto”, con la sua vitalità e la sua aggressività, potrebbe simboleggiare l’eredità da parte della famiglia paterna, l'”agnello”, invece, la famiglia materna Löwy, più pacifica e di tradizione più spirituale.

Lo stemma cittadino (1920) ci riporta alla leggenda narrata nella Bibbia in Genesi 11: la costruzione della Torre di Babele. Kafka però ci dice che non fu ultimata non perché gli uomini non riuscivano a capirsi, quindi per mancanza di comunicazione, ma per scelta: una volta concordata l’idea essenziale di costruire una torre celeste – idea che, «una volta concepita nella sua grandezza, non potrà più scomparire» – non c’è fretta di procedere. Dato lo stato attuale dell’architettura, non si può sperare di finire la Torre nell’arco di una generazione, e chiunque vi lavorasse lo farebbe sapendo che non la vedrà mai compiuta; non è più sensato rimandare finché le conoscenze non si siano perfezionate, così da garantire di portare a termine il lavoro nel tempo di una vita umana? Nell’attesa si abbellisce la città nata attorno al cantiere. Sorgono liti per faccende di proprietà; i capi prendono a pretesto le liti per rimandare ulteriormente l’inizio dei lavori; ci si distrae arricchendo i quartieri, originando nuove contese. In questo modo si prosegue per generazioni, incapaci tuttavia di abbandonare la città.

Kafka ci parla ancora della Torre di Babele nell'ultimo racconto della raccolta, Durante la costruzione della muraglia cinese (1917), dove possiamo indovinare cosa intende egli per Babele: la direzione che coordina i lavori ha deciso di costruire la Muraglia per frammenti isolati, così che gli operai non fossero sconfortati dall’immensità dell’impresa; questo ha fatto sì che in essa restassero dei vuoti, destinati tuttavia a non essere colmati, perché non c’è chi possa percorrerla tutta e ripararli. La Muraglia è quindi difettosa fin dalla progettazione. è inutile, perché concepita come difesa contro i barbari del Nord, troppo lontani per costituire un pericolo; eppure essa sola è in grado di fornire «fondamenta sicure per una nuova Torre di Babele».

Si tratta di due Babeli differenti, perché differente è ciò che rappresentano. Nella Costruzione della Muraglia Cinese, la Babele eternamente rinviata non è Babele; è l’Impero. Ma anche questo è inesatto: perché quel che Babele e l’Impero significano, quel che hanno in comune, è precisamente il fatto che non possono significare alcunché. Ne Lo stemma della città la Torre, a suo modo, c’è: l’essenziale di tutta l’impresa non è la Torre fisica, ma l’idea di costruirla, la quale è tanto grande che non potrà mai venir meno; «finché esisteranno uomini esisterà anche lo strenuo desiderio di ultimare la costruzione della Torre». Similmente esiste per il popolo l’Imperatore presente: com’è illustrato dal Messaggio dell’Imperatore, parabola contenuta all’interno del racconto, ogni suddito crede che l’Imperatore in punto di morte abbia affidato a un messaggero un messaggio indirizzato a lui; ma tanto grande è l’Impero che il messaggero non riuscirà mai a raggiungere il destinatario, e se lo raggiungerà il messaggio non sarà più quel che era in partenza – sarà la parola di un re morto, mentre quel che il suddito aspetta è la parola di un re vivo. Ogni costruzione umana, alla luce di questo altrove, è provvisoria.

In Prometeo (1918) Kafka riferisce le variazioni del mito sull’eroe che rubò il fuoco, la luce, agli dei. Quattro leggende riassunte in poche righe, come appunti interrotti. La prima è quella tradizionale: “…fu inchiodato al Caucaso, …e gli dei gli mandavano aquile a divorargli il fegato sempre ricrescente”. Le ultime tre non sembrano diversi epiloghi del suo supplizio, ma la concatenazione dello stesso evento.
Prometeo per il dolore si ritrae sempre più nella parete di pietra, fino a diventare roccia egli stesso. Prometeo è dimenticato da tutti, dagli dei e dalle aquile. E’ dimenticato il suo tradimento.
Tutti si stancano di lui che non ha più motivo di essere; anche la sua ferita si stanca di sanguinare e così si richiude.
L’enigma rimane per Kafka la montagna rocciosa. La leggenda contiene sempre un fondo di verità, scrive, e riesce a spiegarsi solo nell’inspiegabile: anche lui vuole dimenticare Prometeo, senza permettergli salvezza. E’ del tutto trascurato, infatti, l’epilogo della storia, raccontato da Eschilo: Eracle libera il titano. Il semidio si fa tramite degli dei e degli uomini e riconduce l’equilibrio perduto.

Sciacalli e arabi (1917): in questo racconto, uno sciacallo si spinge sotto il braccio del narratore che sta dormendo accampato in un'oasi in mezzo agli arabi. Gli parla del conflitto tra sciacalli ed arabi. Questi ultimi sono da disprezzare, nonostante la loro fredda superbia, perché uccidono le bestie per mangiarle e disprezzano le carogne. Essi, gli arabi, solo con la loro presenza infettano l'aria. Sudicia è la loro barba orrenda, i loro occhi e il cavo delle loro ascelle è l'inferno. Per questo gli sciacalli amano il deserto. Vogliamo "purezza, soltanto purezza", dice il vecchio sciacallo, mentre gli altri singhiozzano e piangono, per cui sarà lui, l'uomo del Nord, tanto atteso, a compiere giustizia e gli offrono una forbice per uccidere gli arabi. Ma il capo degli arabi si sveglia e li frusta, poi porta loro in dono un cammello appena morto. "Bestie meravigliose non è vero? E come ci odiano!" afferma l'arabo. Addomesticare l'odio con la forza della necessità è il gioco dell'arabo, secondo Kafka.

Nel racconto Relazione per un'accademia (1917) il professor Rotpeter ci racconta la sua vicenda personale di scimmia che ha dovuto reprimere la propria natura per adeguarsi a quella da uomo pur di avere una via di fuga dalla condizione di cattività in cui era caduto. Come ci tiene a ribadire durante l’esposizione, non è stata la voglia di libertà a fargli trovare la soluzione per uscire dalla gabbia in cui lo avevano rinchiuso gli uomini che lo avevano catturato, ma la necessità di trovare una via di fuga. La libertà, infatti, sebbene puntasse a riconquistare lo status quo contemplava numerosi rischi, e soprattutto metteva in pericolo la propria vita, la via di fuga, invece, puntando solo ad uscire dalla condizione in cui era – su una nave rinchiuso in una gabbia con la faccia verso un baule – comportava meno rischi. Questa scelta, presa con la pancia, così come fanno le scimmie, segna l’inizio di una nuova vita per Rotpeter: la sua rinascita come uomo. La commistione uomo-animale è ancora più plausibile perché ciò che si verifica in Rotpeter è solo una sorta di accelerazione del concetto darwiniano di evoluzione: la scimmia che si ingegna per trovare una soluzione a un problema e, una volta giunta allo stadio più avanzato, è impossibilitata dal tornare indietro.

In Undici figli (1917) un padre ci descrive i suoi undici figli, che in realtà sono gli undici racconti che Kafka sta o ha scritto. 

Un fatto di ogni giorno (1917) è un altro racconto presente in questa raccolta.