UNA GRANITA DI CAFFÈ CON PANNA || Alessandra Lavagnino || Sellerio || 2001 || 164 pag.
Dell'impossibilità, in Sicilia, di esistenza della verità abbiamo due versioni. Una è quella amata dalla letteratura del Novecento, da Pirandello a Sciascia, che non si interroga sulle cause, ma coglie in questa difficoltà della Sicilia a convivere con la verità come uno stato naturalmente filosofico, inclinante verso lo scetticismo, che obbliga chi racconta cose di Sicilia a interrogarsi sulla condizione umana in quanto tale. Quello che Sciascia chiamava «la Sicilia come metafora». Vi è una seconda versione, quella storica, per così dire, che con minor pessimismo ma conclusioni forse più desolate riconosce in questa secolare impossibilità cause di vario genere, ma precise, ascrivibili a quell'universo di significati che prende il nome di «omertà». Una granita di caffè con panna fu pubblicato una trentina di anni fa, prima a puntate su un rotocalco, poi in volume. Sciascia apprezzò questo libro, ne fece una recensione, che è un piccolo saggio sulla verità e le donne e la Sicilia, qui ripubblicata. Il libro racconta una storia strana, tra la fiaba e il poliziesco: di una donna di condizione privilegiata, Agata, che per un trauma cranico diventa irresistibilmente sincera; e dice di tutto sulle fortune della sua famiglia, su certi traffici in paese, su piccole e grandi menzogne che la trama del tempo ha inestricabilmente impastato con la crosta della vita: ma la singolarità della sua situazione è che Agata stessa, persona colta e civile, eticamente impegnata sul lavoro e nella vita, non riesce ad aderire moralmente e conoscitivamente alla sua sincerità. Il racconto ha un finale dolceamaro. Ma si capisce perché a Sciascia piacque tanto: per il suo collocarsi, tra le due versioni della questione Sicilia e verità, esattamente, ambiguamente in mezzo. Con esiti deliziosamente elusivi, cioè letterari.
RECENSIONE
La protagonista Agata è una entomologa che vive in Sicilia, sposata e madre di un bambino. In seguito ad un incidente riporta un trauma cranico il cui effetto è una nuova, sconcertante sincerità; sicché Agata esprime le sue opinioni senza filtri e soprattutto rivela informazioni preziose sul patrimonio della sua famiglia, su alcuni traffici illeciti in paese e su altre piccole e grandi menzogne che la circondano. Isolata da tutti, vede aumentare la distanza tra sé e gli altri.
Prima opera che leggo di Alessandra Lavagnino, scienziata e scrittrice. Sinceramente non saprei come descrivere questo romanzo, da un lato la scrittrice ha uno stile davvero elevato e raffinato, dall'altro non mi ha soddisfatto più di tanto.
Ma quando fui sul vasto marciapiede polveroso della grande piazza, mi dispiacque di essere libera. Sempre così. Avevo richiuso il portoncino pesante sotto la lunetta a vetri, avevo lasciato il bambino. Me ne andavo, per quattro ore. All’odore dei pini, che avevano già perso verde nel pulviscolo estivo, si mescolavano gli odori che maggio non dimentica. La grande chiesa dei rimedi restituiva solo d’oro dal tufo opaco. Camminavo lungo la casa – persiane ancora chiuse – che dall’altra parte si affaccia, oltre l’immensa chioma del ficus, sui lecci e, in fronte, le araucarie altissime e preistoriche della Villa. Lì portavo il bambino. «Con tanto sole in casa, che bisogno c’e di portarlo fuori io non capisco», diceva lei. Uscivo lo stesso, ma furtiva e silenziosa, attenta a movimenti e rumori superflui – come in cucina – e finché non ero lontana dalla casa non sapevo parlare al bambino. Molte volte non ero uscita. Altre, che lei aveva detto: con questo vento! ero tornata precipitosa e colpevole, con il bambino in braccio.
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