venerdì 13 dicembre 2019

[Recensione] Il mare non bagna Napoli - Anna Maria Ortese

Titolo: Il mare non bagna Napoli 
Autrice: Anna Maria Ortese
Editore: Adelphi
Collana: Fabula
Data di pubblicazione: 1 maggio 1994
Anno di pubblicazione originale: 1953
Premio vinto: Premio Viareggio 1953
Genere: racconti
Pagine: 176
Prezzo: 17 euro

Quarta di copertina
Al suo primo apparire, nel 1953, Il mare non bagna Napoli sembrò a molti inserirsi in quel filone che allora e dopo venne chiamato «neorealismo». Era tutt’altra cosa. Nato dall’incontro della scrittrice con quella città – che era e non era la sua – uscita in pezzi dalla guerra (un incontro che fu insieme un addio: a Napoli la Ortese non tornerà, in seguito, praticamente mai), il libro è la cronaca di uno spaesamento. La città ferita e lacera diventa infatti uno schermo sul quale l’autrice proietta ciò che lei stessa definisce la propria «nevrosi»: una nevrosi metafisica, una impossibilità di accettare il reale e la sua oscura sostanza, la cecità del vivere, un orrore del tempo che ogni cosa corrode e divora – e insieme il riconoscimento del «cupo incanto» della città, del mondo. Tutto il libro, con la sua scrittura «febbrile e allucinata» e al tempo stesso rigorosissima, è un grido contro questo orrore, da cui lo sguardo – come quello della bambina Eugenia il giorno in cui mette gli occhiali, nel primo, indimenticabile racconto – vorrebbe potersi distogliere: e non può. La presente edizione è accompagnata da due testi del tutto nuovi e preziosi, scritti dall’autrice ripensando questo suo libro: per il lettore saranno la guida più sicura.

Recensione
Prima opera della Ortese che leggo.

Il mare non bagna Napoli è una raccolta di racconti della scrittrice Anna maria Ortese, raccolta che vinse nel 1953 il Premio Viareggio per la narrativa. Questa raccolta contiene i seguenti racconti:
- Un paio di occhiali
- Interno familiare
- Oro a Forcella
- La città involontaria
- Il silenzio della ragione

I primi due sono racconti letterari, mentre i rimanenti tre sono veri e propri reportage giornalistici vissuti dalla stessa autrice.

Ho amato molto il primo racconto, la storia di questa bambina quasi cecata che va con la zia a comprarsi un paio di occhiali e la meraviglia che la avvolge quando finalmente vede tutto, in maniera nitida, il mondo che la circonda. Ma essendo la prima volta che porta gli occhiali inizia a girargli la testa e quasi sta per svenire.
Nel secondo racconto, Interno familiare, la protagonista è Anastasia Finizio la quale mantiene la sua famiglia e non smette di credere in un amore di quando era più giovane.
In Oro a Forcella e La città involontaria emerge tutta la povertà che vi era a Napoli in quell'anno, nel dopoguerra: il primo ci mostra le persone che fanno la fila al banco dei pegni e di un escamotage che inventa una donna pur di passare davanti a tutti, nel secondo l'autrice ci descrive una sua visita nel Palazzo dei Granili in cui vivono molti senzatetto e persone con una povertà estrema (impressionante il corteo funebre del bambino morto i cui genitori non hanno neanche i soldi per una bara).
L'ultimo racconto, Il silenzio della ragione, un finto reportage sugli intellettuali progressisti che avevano fatto parte della rivista "Sud", offese alcuni intellettuali napoletani che furono citati con le loro generalità e rappresentati con le loro invidie e sospetti reciproci. Per questo motivo la Ortese stessa, che faceva parte di quel gruppo di intellettuali, non mise più piede a Napoli per il resto della sua vita.

Ho adorato lo stile di scrittura della Ortese: mi ha affascinato, mi ha ipnotizzato sia nella descrizione delle vie di Napoli che percorre a piedi, sia nella descrizione del popolo che si muove come tante formiche in quei vicoli labirintici e claustrofobici, sia nel carattere dei personaggi che ci pennella. Ne esce fuori una Napoli distrutta dalla guerra e dall'uomo, alla ricerca di un pezzo di pane e di un tetto per dormire, ma con la speranza che non sembra essere morta, come afferma il padre della bambina cecata del primo racconto:

"–Ce sta ‘o sole... ‘o sole!– canticchiò, quasi sulla soglia del basso, la voce di don Peppino Quaglia. – Lascia fa' a Dio, – rispose dall'interno, umile e vagamente allegra, quella di sua moglie Rosa."

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